Ansia e Attacchi di panico

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… Le mani incominciarono a sudare e le gambe tremavano ferme, sentii il cuore che pompava e mi sembrava di poter contare i peli e i capelli che, ritti, mi parlavano del vento e mi facevano immaginare di sembrare più grande, gonfio… come i gatti. Tutta la mia attenzione era su di me e avrei potuto percepire un granello di polvere sfiorarmi la pelle, avevo l’impressione che tutti mi potessero vedere, tendevo a acquattarmi e iniziai a pensare che mi avrebbero potuto scoprire e che sarei potuto morire. Faticavo a regolarizzare il respiro e, ubriaco di ossigeno, mi sembrava che tutto girasse.
Mi guardai attorno e vidi il telecomando nella mia mano e il divano consunto, i libri di mia madre il posacenere con le cicche che vi avevo spento, mi sembrò di andare in mille pezzi, di perdere la mia mente nei tanti frammenti che si allontanavano perdendo la memoria della forma. “Sto morendo..” pensai rincuorandomi. “Sto impazzendo…” constatai angosciato, immobile e senza controllo.

L’ Ansia e Attacchi di panico non avrebbero avuto una connotazione patologica in mezzo alla savana, nel tentativo di scappare da un branco di leoni affamati, ovvero nell’attesa di scattare sulla propria preda, mentre sul divano del proprio salotto è difficile comprenderne il senso. Ma se un regalo ci viene fatto dalla società contemporanea, quella dell’immagine, quella della comunicazione massmediatica, è proprio l’ebbrezza di una esperienza adrenalinica come l’attacco di panico. Quasi una moda o un rito di passaggio, il segno di un contatto con dimensioni interne sconosciute. L’aumento degli attacchi di panico nella popolazione ci fa fantasticare di poter sentire genitori tra qualche tempo dire:”uh che carino anche il tuo ha avuto il suo primo attacco d’ansia…!?
Il sistema limbico e l’amigdala sono gli organi deputati a far scattare l’allarme, poi c’è la neocorteccia che sottomette alla ragione l’istinto di fuga o di attacco. Sapere questo però non ci aiuta a comprendere e sopportare la sofferenza che si lega al panico, più utile sarebbe comprendere l’utilità della paura.
La paura serve sostanzialmente a non farci fare stupidaggini. Idealmente è un sistema di preveggenza, un modo per leggere nel pensiero e poter evitare situazioni pericolose o evitare il dolore. Teniamo presente che in quelle rare patologie in cui il sistema propriocettivo non funziona e non si sente dolore, la paura è praticamente assente; evitare il dolore, fisico prima e psicologico poi, è il motivo per cui proviamo paura. In tal senso si comprende come i sistemi deputati alla registrazione e gestione della paura siano soggetti a sensibilizzazione e assuefazione. I casi in cui la paura viene utilizzata come piacere, come per gli sport estremi al fine di ottenere, dopo la scarica di adrenalina, il rilascio di endorfine che hanno lo stesso effetto degli oppiacei, ci aiutano a comprendere cosa intendiamo.
Oggi però la paura si presenta decontestualizzata, perdendo la sua utilità rispetto alla sopravvivenza e sottoponendoci a una perdita di senso faticosa. Forse ci può aiutare a capire a cosa ci riferiamo pensando a quando ci viene da “ridere in Chiesa”, una di quelle situazioni, cioè, in cui siamo chiamati alla serietà e in cui ridere non si deve. Ma improvvisamente accade e cerchiamo di fermarci e più ci proviamo e meno ci riusciamo.
La società si evolve verso un equilibrio fondato sul post-datare le emozioni ossia, per non rivelare le nostre vulnerabilità, reprimere le emozioni per poi farci i conti in momenti altri e, sempre più spesso, in modo del tutto casuale. Così l’angoscia per un lutto può presentarsi anni dopo la perdita e risultare incomprensibile. Come in “chiesa” (la minuscola è voluta), la società, ma soprattutto noi, ci imponiamo maschere che non hanno legami con la dimensione interna, costruendo un graduale allontanamento da questa dimensione attraverso la negazione dell’amore, dell’ilarità, della gioia, della tristezza, dell’angoscia… della paura. Illusi di controllo attraverso la mente ignoriamo la capacità del Corpo di registrare tali emozioni, un corpo inciso come il vinile che, una volta posto sul giradischi suona una musica che non riconosciamo. Un corpo pattumiera che, piena, al primo urto cade svuotandosi della spazzatura che ci sommerge e che non riusciamo a differenziare perché troppa, perché rei di aver trattato quelle che ritenevamo rifiuti (le emozioni), come tutte uguali e vestigiali.
Costruiamo un immagine pubblica, la persona che in greco si dice proprio “maschera”, e finiamo per credere di essere quello… “sono un avvocato…”, “sono un ingegnere…”. Quando il corpo ci restituisce la verità nasce il panico. Così in “Aula” si ha improvvisamente paura del giudice perché da Avvocati si torna bambini e i bambini hanno paura del GIUDICE. Ma il panico non è allora amore, ilarità, gioia, tristezza, angoscia? Non ci parla forse di noi? Non è forse incassare le emozioni post-datate? Non è riprendere contatto con il bambino? Non sarà, quindi e forse, meglio prestare orecchio?
Interloquire con la paura significa considerare il proprio corpo come fonte di informazioni su Sé e sugli altri e non più come emozione da eliminare, gestire e così via.Ansia e attacchi di panico, al di la della loro funzione evolutiva che è fuori discussione, sono nella società contemporanea quasi uno Status Symbol. Il 30% della popolazione, più il sommerso, ne soffre, una popolazione che nega a se stessa emozioni non desiderabili e che punta all’essere performanti e a curare l’immagine, la persona, la maschera. Il panico è la paura di aver paura, un circuito che si autoalimenta inesorabilmente e che conduce a distruttive sensazioni di destrutturazione e frammentazione. Una paura al quadrato la cui soluzione sta nel dominare l’istinto di fuga, andare in bocca al Leone, cercare la paura. L’unico modo di tenere il controllo è perderlo, concederselo. Ho paura di morire, ho paura di impazzire, ho paura di perdere il controllo e di picchiare uno sconosciuto o peggio qualcuno di conosciuto. Se a questo tipo di confessioni rispondiamo di stare calmi alimentiamo il panico, allora potremmo dire di agitarsi o soltanto affermare che se si ha voglia di picchiare qualcuno si avranno dei sacrosanti buoni motivi a cui dare voce.
Il panico è la paura che l’Altro si accorga delle nostre emozioni ma, tutti voi che soffrite di ansia e di panico, fatevene una ragione, nessuno dedica così tanto tempo a pensarvi e a osservarvi, anche se vi piacerebbe.
Le terapie oggi più diffuse sono quelle cognitive e brevi, fondate sul rinforzo delle capacità di ragionamento, sullo sviluppo di strumenti per gestire rabbia, collera e panico e contemporaneamente l’origine delle sue forme compulsive e disadattive. Effettivamente risultano più efficaci delle terapie psicoanalitiche, ossia di quelle che analizzando troppo rischiano di farci avere più ansia, eppure le terapie cognitive fanno perno sulle capacità di gestione e di controllo ossia proprio su quei meccanismi che , inflazionando la psiche, reprimono le emozioni. Insomma, è vero che sono di parte, ossia non sono un cognitivista, ma ritengo che la terapia debba in questi casi educare al non avere il controllo, ma questo è più faticoso.
Il Falso mito, prodotto o alimentato dalle case farmaceutiche, che l’ansia e il panico vadano eliminati, serve a una società performante e a una economia fondata sulla negazione della sofferenza (cautela con i farmaci). Guarire dal panico significa invece eliminare la paura della paura per tenersi la paura, quella legittima, quella che tutti provano di fronte a emozioni complesse.
Nel sottolineare che la paura è mezzo di preveggenza, di lettura del pensiero, atti a evitare il dolore, non possiamo non chiederci se realmente aspiriamo a questo, ossia al totale controllo. Una risposta positiva verrebbe proprio da chi presenta un disturbo di panico.

C’è un dio della mitologia greca che aveva le gambe caprine e il corpo umano, un dio che correva nelle selve e spaventava le ninfe che si lavavano nei ruscelli, e lo faceva tirando fuori urla che impaurivano lui stesso. Il dio Pan è l’incontro con l’animalesco, con l’istintivo, con ciò che è cogente. Questo dio è ciò che oggi chiamiamo ansia e attacchi di panico e ci impone di prestare attenzione a bisogni e istinti inascoltati. Questo è un dio che vuole la D maiuscola da parte di chi ne ode la voce.

Dott. Luca Urbano Blasetti

Psicologo Psicoterapeuta

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