Un caffè con Freud, Jung e Hillman. Piccolo romanzo sul sogno

Un caffè con Freud, Jung e Hillman (Articolo pubblicato nella rivista “L’anima fa Arte). Breve Romanzo per spiegare come leggere i sogni.

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Ho sempre apprezzato le grandi doti di comfort della mia monovolume. Mio padre ne comprò il primo modello negli anni 80’ e io non ho mancato di prendere lui a modello acquistandone l’ultima versione uscita nel 2008. Grande, spaziosa, tettino apribile, una forma di ferro da stiro fuori e forma di casa dentro con sedili girevoli e tavolini improvvisati.  Capace di donare un immaginario familiare che scalda il cuore come Estìa sola sa fare. Mentre carezzavo la coscia carnosa di mia moglie, guardavo la strada rotolare sotto di noi, ruvida, grigia, rompeva il fluido scorrere del paesaggio della campagna senese. Un saliscendi tra cipressi e vitigni che cullava i miei bambini che, seduti nei sedili posteriori, erano stranamente in silenzio e io, lieto e pensoso, li osservavo dallo specchietto scaldandomi di quel fuoco di Estìa.

D’un tratto gli occhi di un verde intenso e con un leggero contorno nero intorno alla pupilla della mia pupilla primogenita, si girarono verso i miei piantandosi sullo specchietto. Sgranati, rubarono la luce dall’ambiente circostante riflettendo le macchie gialle e rosse dei papaveri e delle margherite nei campi. Quello sguardo mi donò sensazioni che mi riportarono a quando io fanciullo sedevo su quello stesso sedile e mio padre guidava con le musiche dei Rokes.

“Papà quella nuvola somiglia alla signora col pancione che stanotte mi sgridava!”

Trillò mia figlia e subito l’attenzione del mio secondogenito, generalmente sfuggente come un anguilla, si fermò fissa su quella stessa nuvola candida e illuminata dal sole, ma anche svilita dalle macchie del finestrino sporco. Altrettanto fece mia moglie e io sussultando attesi a guardare per non levare lo sguardo dalla strada.

“Chi hai sognato Ciuffi?”

Chiese subito mia moglie abbassando il parasole e osservando gli occhi di mia figlia dal suo specchietto ma, prima che potesse avere una risposta squillò la voce di Carlo che, intento a riprendersi l’attenzione che la Mamma aveva dato alla sorella e riportarla su di sé, dichiarò come un navigato seduttore.

“E’ vero! Somiglia a mamma!”

Io non potevo guardare ma ero estremamente tentato. Mi riservai di dire qualche frase di circostanza il cui senso fosse semplicemente trasmettere interesse, far capire che avevo visto e ero entusiasta delle loro fantasie. Fu poi una rapida escalation in cui le voci si accavallarono e, mentre mia moglie, lusingata dal figlio maschio, affermava che la nuvola somigliava solo a una nuvola, mio figlio e mia figlia dibatterono per circa 20-25 secondi.

A quel punto mi sbrigai a guardare quella nuvola. Intravidi quello che mi sembrò un volto di donna, rubiconda e bella, di una bellezza eterea. Poi non ricordo più nulla, il buio mi avvolse e per 2 interminabili minuti non vidi nulla.

Monaco era bellissima quel giorno. In estate la Baviera è piena di luce e fa buio molto tardi, fino alle 22:30 si ha la possibilità di stare a fari spenti con l’auto. Io ero a piedi, camminavo per la Kaufingerstraße, la via principale, quella mattina. Una strada pulita e ordinata con qualche albero a far d’arredo e intorno negozi di ogni sorta. Intrasentivo l’odore del pane uscire dalle Bäckerei mentre più intenso era il profumo del sesamo e dei semi di papavero tostati. Ero solo e ostentavo una sicurezza in verità assente. Non conoscevo la lingua e avevo già ricevuto l’esortazione di qualche indigeno ad impararla in breve tempo cosa impensabile con il tedesco. Inoltre mi trovavo alquanto spaesato nel vedere il senso civico di quella città e, invidioso, mi difendevo pensando a come l’Italia, seppur più sporca, fosse molto più bella. Ma in cuor mio sapevo di partire perdente.

Intanto andavo in direzione della Haus der Kunst in cui c’era una mostra sull’Espressionismo tedesco, quel movimento del Cavaliere Azzurro che cozzava con la pesantezza di quell’edificio, residuo di architetture imponenti dell’imperialismo italotedesco del  ‘900, ma era consonante con la vivacità della mia psiche.

Ero ancora piuttosto distante quando fuori da un caffè, all’incrocio tra Marienplatz e la Rosenstraße, mi accorsi di tre anziani individui che sorseggiavano un caffè lungo, quello stesso caffè che da sempre è l’unico vero punto di contatto tra americani e tedeschi. Uno dei tre fumava un sigaro mentre l’altro, nell’atto di rimettere gli occhiali sul naso, ammoniva il terzo vecchio, segaligno e lungo, che era l’unico a non avere ne la barba del primo, ne i baffi del secondo.

Li osservai più attentamente, c’era qualcosa di stranamente familiare in quei tre volti con i visi segnati dalle rughe. In quel quadretto, tipico clichè di accademici al bar nella prima metà del ‘900, ebbi un improvvisa sensazione di romanticismo che mi portava a immaginari fin anche di 50 anni prima e mi sembrava che quella piazza divenisse il colle di Montmartre. Più li osservavo e più mi risultava difficile credere ai miei stessi occhi. Il fumo del sigaro celava parzialmente i contorni dei primi due e mi confondeva. Indugiai solo per pochi secondi e poi decisi di tagliar corto e avvicinandomi iniziai a gridare silenziosamente

“Scusatemi!?”

Nessuno di loro si voltò. E tutti e tre rimasero presi dai loro discorsi lunghi quanto i loro caffè. Provai di nuovo ma senza risultati se non quando giunsi a ridosso del loro tavolino accompagnato da un volo di piccioni che, avidi di briciole, svolazzarono via da sotto il tavolino per sfuggire dai miei piedi che impazienti si inseguivano l’un l’altro mossi dalla curiosità. Quella stessa curiosità che era stata madre dell’incuria nei confronti dei pennuti urbani, li vide aprirsi in volo a far da splendido sipario a quel palco improvvisato. Li vidi meglio ora che il sipario si era aperto.

“Scusatemi!?”

Ripetei di nuovo, ottenendo che il solo sguardo del vecchio con la barba si poggiasse su di me mentre gli altri due rimasero agganciati al loro discorso accennando soltanto ad un leggero movimento del capo. Ruotarono la testa ma lo sguardo rimase fisso tra loro, a concludere lo scambio prima di decidere se destinarmi attenzione. Un vezzo questo loro sguardo amoroso, dato che non era in discussione il fatto che io ricevessi o meno attenzione.

“io non dovrei essere qui” continuai

“O meglio sono diretto alla Haus der Kunst ma non ho potuto fare a meno di notare una stranissima somiglianza tra voi e delle persone che conosco bene, seppur non direttamente”

Non feci a tempo a finire di parlare che cordialmente fui invitato a sedere.

“Lei non è qui per caso” mi disse il vecchio barbuto “prima di onorare i grandi artisti dell’espressionismo tedesco si accomodi con noi e mi permetta di presentarmi e di presentare i miei colleghi e amici”

“O forse Nemici” rimbrottò il vecchio con i baffi

“Ecco!” esclamò quindi con un leggero risentimento il vecchio con la barba “…le presento il collega con i baffi, il Dott. Carl Gustav Jung e, come avrà capito, ha una certa predilezione per l’oppors… ops mi scusi intendevo per gli opposti”

“Oppure è in cerca di senso dato che i Nemici hanno il potere di dare senso” Proseguì il terzo uomo la cui magrezza era amplificata da un paio di occhiali con lenti rotonde ma leggermente squadrate e da una chierica quasi pastorale. Eppure trapelava dietro alle lenti uno sguardo di chi sapeva più di quello che avrebbe dovuto rispetto alla cosa nostra, ossia ciò di cui avremo parlato di lì a poco.

“Mentre, mio caro giovane uomo…” proseguì il primo ”… il nostro amico dei nemici è il Dott. James Hillman, esimio fondatore della Psicologia Archetipica…”

“Archetipale” puntualizzò Hillman

“… e sia…” Riprese il primo “…Archetipale, direttamente derivata dall’invenzione del Dott. Jung la Psicologia Analitica che, a sua volta ha mutuato la sua invenzione dalla mia: la Psicoanalisi. Dunque Mi presento. Sono il Dott. Freud e il mio nome di battesimo nella sua lingua madre dovrebbe suonare come Sigismondo”.

Un certo ottundimento mi fece perdere l’equilibrio e mi sembrò che la sedia ondeggiasse. Ubriaco di quel fumo acre, non riuscivo a credere che veramente mi trovassi davanti a loro tre. Mi ero già seduto e nel tempo che impiegai a farlo già avevo avuto una quantità di pensieri su come lo avrei raccontato, su chi non mi avrebbe creduto e, soprattutto, sul perché avessi di fronte a me tre uomini della stessa età pur sapendo che erano di tre generazioni molto diverse.

“Appunto!” Esclamai “Proprio Voi! Non è possibile che siate contemporaneamente allo stesso tavolo e che io vi abbia incontrato in un momento in cui forse non dovrei essere qui, o meglio passando per caso, mentre ho come l’impressione che dovrei essere altrove!”

Jung empaticamente si voltò verso di me, con tutto il corpo stavolta, e sorrise benevolo prendendo gli occhiali e iniziando a pulirli con la pochette che aveva estratto dal taschino della giacca e disse, paterno, pur con un pizzico di sadismo nel tono della voce

“Si chiama Sincronicità e significa che secondo principi di nessi acausali, ossia per puro caso ci direbbe lei, sarebbe dovuto  accadere in questo luogo, ora perché lei ora è pronto a riceverlo”

“E stia tranquillo” si affrettò ad aggiungere Hillman “…lei non è pazzo sta solo privilegiando le immagini for the moment, mentre noi in realtà la stavamo aspettando…” continuò lasciandomi interdetto “…era da qualche tempo che cercavamo qualcuno in cui canalizzarci, rifarci carne e lei, caro ragazzo, ci sta concedendo questo privilegio che ci permetterà di avere un’opinione esterna su quanto andavamo discutendo insieme. Eravamo stufi di essere solo idee”

Non era facile capire cosa intendesse ma poco mi interessava, piuttosto mi trovavo con un’ansia diffusa, probabile figlia delle prestazioni a cui mi sentivo chiamato.

“E, se mi è concesso, su cosa dovrei pronunciarmi dato che certamente non sarei all’altezza del confronto?” Affermai con la voce tremante ma più ferma che riuscii a tirar fuori

“Mi sembra ovvio…” disse maneggiando il sigaro il Dott. Freud “…Sulle nuvole!…” tuonò e, indicando con il braccio libero dal sigaro, il destro, verso l’alto dietro di me, continuò “…Non siamo capaci di decidere a cosa somiglia quella che si trova lassù alle sue spalle, proprio dietro la torre dell’orologio del Municipio”.

Le statue semoventi giravano piene di colore all’interno della torre del Municipio di Monaco, ma il mio sguardo si piantò immediatamente su quella nuvola. Mi sembrò immediatamente di vedervi un volto di donna, rubiconda e bella, di una bellezza eterea, forse incinta.

Stavo per pronunciarmi quando il Dott. Hillman mi invitò ad ordinare qualcosa al bar

“…Ma non prenda questo orribile caffè dato che, da italiano, come in parte anche io mi sento, lo troverà molto poco amabile”

Il mio sguardò rimase sulla nuvola ma, come avevano fatto prima Jung e Hillman, restituii il mio interesse con un movimento del corpo nella loro direzione

“Lungi da me bere caffè a Monaco!” esclamai continuando ancora per un secondo a guardare la nuvola “… una Waiss è sempre la ben venuta invece, specie d’estate, ma mi permetta dott. Hillman non era più Greco d’adozione?” Domandai riportando lo sguardo su di lui.

“E birra sia per il nostro giovane italiano!” Declamò il Dott. Freud quasi a zittire la possibile risposta.

Mentre il cameriere mi portava quel torbido nettare Hillman volle precisare come effettivamente nel suo ritorno alla Grecia dall’Oriente, non fosse giunto, per motivi di tempo e di spazio, al punto di destinazione finale dove il politeismo era certamente un’angeologia. L’Italia per l’appunto. Ma mentre cercava di sedurre se stesso e me con l’Italia Il dott. Freud riprese la parola assertivo come sempre.

“Insomma, caro lei, la aspettavamo per aver un opinione su chi di noi tre avesse ragione di vedere in quella nuvola ciò che effettivamente è nella nuvola!”

Il fatto che sgranai gli occhi spinse probabilmente Hillman a un moto di protezione

“Così sembra una sorta di enigma massonico” si sbrigò ad aggiungere

“… sono d’accordo” proseguì il Dott. Jung e, preso fiato e sportosi verso di me proseguì saccente ”… il fatto è che tutti noi vediamo in quella nuvola, finchè dura, la medesima immagine ossia quella di una donna, rubiconda e bella, di una bellezza eterea, forse incinta…”

Il fatto che avessi visto la medesima cosa mi fece strabuzzare di nuovo gli occhi e questo indusse Tutti e tre i medici dell’Anima a sostenermi con spiegazioni ulteriori

“Ma non si preoccupi, caro collega…” Si affrettò paternamente a dire il dott. Freud “…sappiamo che anche lei vede quell’immagine e del resto  non potrebbe essere diversamente dato che è lei ad aver inventato noi come al tempo io inventai l’inconscio.  Il punto è capire chi di noi secondo lei ha ragione rispetto al senso che attribuisce all’Immagine… Io ad esempio…”

“Io chi!” proruppe il Dott. Jung sorridendo e con un eco in leggero ritardo ma più dimesso del dott. Hillman

“ahhh! Non riniziamo per favore con queste scempiaggini! Ci dovrà pur essere qualcuno a governare il Vostro benedetto Gentle folk? E se non c’è e Voi ritenete che la Psiche abbia una forma di governo così democratica fate pure, ma mi sia concesso usare l’Io come mezzo verbale per parlare al nostro assetato amico”

Freud non fece passare più di un istante per evitare di perdere il diritto alla parola e, mentre sottovoce Hillman suggeriva che le parole sono persone, Freud riprese

“…Io ad esempio ritengo che la psiche veda nel cielo qualcosa che corrisponde a ciò che è in terra, e che quella nuvola sia l’immagine delle nostre madri, accoglienti e gravide e forse troppo disponibili, quelle madri che sono la causa della nostra totale incapacità di fermare i voli pindarici. Ci hanno talmente accolto che non abbiamo imparato a limitarci nelle nostre fantasie” Aspirò ripetutamente il suo sigaro per riattizzarlo, generando una nuvola di fumo così densa da risultare impossibile vedere i volti dei miei idoli accademici.

In quella cortina riconobbi la voce del dott. Jung che replicò col tono  di chi ha un certo piacere, non tanto nel dire la sua, quanto nel trovare un modo di mettere in difficoltà Freud

“Io invece…”

“Io chi!?” Sorrise di gusto Freud, sempre con quell’eco in leggero ritardo ma più dimesso del dott. Hillman.

“…Lo so… sarò certamente arrossito…” ammise Jung “… e a poco servirebbe dire che ho accolto la richiesta del mio sempre caro anfitrione, quindi non lo dirò. Mentre mi preme dire che nella nuvola non possiamo vedere ciò che è in terra. La nuvola non è lì a far da specchio a nostra madre e non vuole nasconderci cripticamente qualcosa ma è semplicemente un riflesso manifesto di un’immagine della psiche. Questa non ha modo di conoscere le sue condotte e i suoi bisogni se non attraverso i caratteri che attribuisce agli oggetti circostanti. Ma questi, gli oggetti, sono solo dei simulacra utili a far da specchio.” Quindi concluse scolasticamente “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”. 

“Dunque!?” lo incalzo,  da dietro il sigaro, il dott. Freud

“… dunque dunque…” proseguì Jung lasciandolo in sospensione e voltandosi verso Hillman con il quale scambiò uno strano gesto di intesa “ … dunque entro i prossimi 60 secondi una foglia cadrà dentro la tua Borsa da medico infilandosi da quella piccola fessura…”

“Quando riinizi con i tuoi giochetti paranormali mascherato da fisico dei quanti mi fai proprio ridere. Invece potresti fare la cortesia a tutti noi di arrivare al Dunque?”

“… Va bene Maestro” ma in quel riprendere il discorso si avvertì un sottile sarcasmo che non lasciò indifferenti nessuno dei presenti “… Dunque le nostre madri non hanno nessun ruolo particolare mentre è l’archetipo della madre, ossia la condotta accogliente, disponibile e protesa alle cure, eredità e dotazione di base che la psiche individuale ha e che attinge dall’Inconscio collettivo, ad essere attiva. Questa Condotta  in questo preciso momento…” con una pausa e un sorriso sardonico fece per indicare la foglia che era sospesa sulla borsa di Freud e proseguì “… è attiva in noi, forse oltremodo attiva, e che cerca nel mondo circostante oggetti concreti che le somiglino. Direi di lasciar perdere la mamma la fuori e occuparci di quella qua dentro. Direi di occuparci del modo in cui ci si prende cura di se stessi”.

Tutti e quattro rimanemmo per un istante in contemplazione della foglia che, tra lo scegliere di dar ragione all’uno o all’altro, fece per cadere all’interno della borsa dell’inventore dell’inconscio.

“Effettivamente…” quello fù il mio esordio accademico, e la voce aveva un tremolio mitigato solo dalla birra corposa, ma salvò, e questo era il mio scopo principale, dall’impasse i tre psicotici psicologi “ …mi sembra che  ci sia una certa disposizione di tutti a dar spazio ai propri pensieri, parole, opere e omissioni, senza valutarne la qualità e la bontà. Proprio come farebbe una madre di fronte al disegno che il figlio le porta in regalo.  La madre direbbe che è bellissimo. Insomma, non c’è la volontà qui di verificare ciò che è buono, c’è invece la necessità di attribuire il carattere di bontà a qualsiasi affermazione ognuno faccia”

“Proprio così” pacatamente disse il Dott. Hillman “Ma a noi interessa decidere se abbia senso cercare le cause nelle nostre mamme, trovare lo scopo delle nostre condotte oppure scoprire la volontà della nuvola, che in fondo non è nient’altro che se stessa… secondo necessità”

A questo punto io sorrisi mentre i due medici tedeschi rimasero attoniti con lo sguardo di chi non aveva inteso. Il dott. Hillman non mancò di notarlo e sorridendomi mentre finivo di svuotare il bicchiere della birra disse

“Il dott. Freud vede nella donna la sua e la nostra madre e, probabilmente, nel suo essere gravida si farà fan di Almodovar che nel suo film ci ripropone il complesso di Edipo con la storia dell’uomo che diventa piccolo e ri-entra nella vagina della sua amata dormiente… il Sig. Sigismondo ci vuole dire che vorremmo tornare nel ventre di colei che ci ha amato perché non ci ha aiutato a uscirne definitivamente”

“Ora chi sarebbe questo Almodovar!” proruppe di nuovo Freud che non ci stava ad essere trattato con quella leggerezza.

“Dott. Freud” intervenni in tono pacificatorio “si tratta di un regista di film di fine ‘900 che nel film «Parla con lei» propone questa trama edipica, anche se in realtà la riprende da un racconto di Bukowsky nella sua raccolta di «Storie di Ordinaria Follia»”. Il fatto di aver precisato una fonte letteraria al Prof. Hillman mi riempi di orgoglio ma mentre mi gongolavo proprio lui riprese la parola.

“Corretto dott. Urbano Blasetti. Resta chiaro che il dott. Freud interverrebbe direttamente sulla madre del paziente ossia su sua madre. Suggerirebbe di promuovere uno sganciamento da questa nella vita quotidiana. Mentre il Nostro, e a me caro, Dott. Jung non chiamerebbe in alcun modo in causa la sua madre reale, piuttosto inviterebbe le altre funzioni-condotte o bisogni psichici ad attivarsi, anzi forse questo appartiene più al sottoscritto mentre a Carl appartiene più una modalità di intervento improntata a ridurre l’impatto di questa iperaccoglienza della psiche per se medesima. Il dott. Jung punta ad ammansire l’archetipo inflazionato”.

“E tu?” all’unisono dissero Freud e Jung imbarazzati dal trovarsi così vicini mentalmente

Io mi voltai con la stessa curiosità e la stessa rabbia di chi avverte la critica ma non riceve soluzioni alternative.

“al tempo esimi colleghi” riprese Hillman “… al tempo. Non mancherei certo di esprimermi in tal senso senza onorare il mio dovere al confronto”

Il suo autocompiacimento era piuttosto irritante ma, almeno in me, prevaleva quella sana curiositas che nessuno dei due padri della psicodinamica del primo ‘900 avesse mai stimolato. La mia avidità era evidente e il Dott. Hillman non mancò di notarla e prosegui quasi dedicandomi le parole successive

“Una nuvola, in verità, è sempre e solo una nuvola. Se noi ammettiamo, per ipotesi, che ci venga in sogno non possiamo affermare di aver sognato di una donna, rubiconda e bella, di una bellezza eterea, ma siamo tenuti ad affermare di aver sognato una nuvola e basta! La sua forma è un attributo che gli diamo ma che non necessariamente appartiene ad essa.”

“Ma noi proiettiamo su di essa i nostri contenuti intrapsichici che assumono forme dette archai!?” Ribattè con tono di ovvietà Il dott. Jung mentre io tendevo le orecchie sempre di più

“Carl” riprese Hillman con tono paterno

“si James?” fece eco Jung con tono ironico

“Tu hai ripercorso a ritroso la mitologia passando dal nostro commensale Freud, poi da Nietzsche, Usener, Kant e così via attraverso Paracelso fino a Vico, Ficino e Plotino. Hai riabilitato l’iperuranio e il mondo delle idee poi però le hai asservite di nuovo all’Io chiamandolo Sé perché in fondo vuoi un gran bene a colui che odi. Penso sia importante ribaltare il rapporto tra Archetipi e individuo. Non è l’individuo che proietta su specchi, ma sono gli archai a proiettare sulla materia, ossia è la psiche che usa l’uomo come specchio. Sono gli immaginari che hanno bisogno di reincarnarsi e lo fanno sulla materia umana. Non sono i nostri pazienti a sognare ma sono sognati dagli archetipi.”

“Guarda che su questa via ci siamo già giocati il buon Friedrich quando arrivò a parlare di Zarathustra!” ammonì il Dott. Freud  e io effettivamente mi trovavo d’accordo e piuttosto inquieto data l’ubriacatura che lo psicologo poeta di fede psicologica mi aveva provocato. Decisi comunque di sospendere la mia incredulità for the moment e, per mitigare la mia inquietudine incalzai quello psicologo degli anni ’80 che tanto mi ricordava il nonno di mia moglie.

“Ma quindi se assumiamo che l’uomo è sognato e non sogna…” non feci in tempo a proseguire che il Dott. Hillman riprese la parola

“La nuvola, o meglio l’immagine della nuvola, ha bisogno di noi per ricordare a se stessa la sua funzione. La nuvola attraverso noi ricorda a se medesima di essere solo acqua che cambia di stato, sublima fino a diventare vapore che sale in cielo come le nostre parole oggi. L’acqua diviene vapore e la nuvola è dunque semplicemente gravida di acqua che è destinata a ricadere a terra sotto forma di pioggia. Quindi ci ricorda che noi siamo consonanti con lei in questo momento, ossia gravidi di immaginari e fantasie, di concetti e idee che ci disancorano da terra.”

“La donna gravida ci suggerisce, sarai d’accordo?…” chiese il Dott. Jung facendo una pausa quasi ad attendere risposta e poi riprese “… che sta per nascere un nuovo immaginario, una nuova funzione psichica che non ci è ancora nota e non che vogliamo tornare al ventre della madre. Ammetterai che sarà questa funzione a indicarci la via per l’individuazione?”

Giravo la testa dall’uno all’altro e ora piantai lo sguardo su James che mi risultava sempre più accademicamente amabile. Lui non mancò di nutrirmi

“La nuvola è gravida di Pioggia e l’acqua tornerà al mare, alla materia prima alchemica per poi sublimare di nuovo. La nuvola ci informa semplicemente di come siamo destinati, come lei, al continuo ciclo alchemico che vuole la perenne rincorsa tra gli elementi di base e la loro trasformazione. Una condanna che l’alchimia ci ricorda da secoli. Insomma la nuvola non vuole niente di più che essere una nuvola nel suo ciclo vitale e ci dice che siamo in inflazione di sublimazione, ossia che tendiamo a farci troppo aquila e spirito e poco serpente e terra”

Mi iniziava a girare la testa e avvertivo anche una certa inutilità rispetto a quanto stessero dicendo. Sembrava che si fosse perso il senso dialettico e esplorativo e ci si fosse impaludati in quell’autocompiacimento narcisistico tipico degli psicologi nelle orge dei talk show.

“Ma insomma!” si voltarono all’unisono verso di me esterrefatti dalla mia tanta insolenza “…mi avete chiesto di pormi giudice delle vostre elucubrazioni e io ho ascoltato con vero interesse. Sono inoltre profondamente lusingato che mi abbiate chiesto di assolvere a questo compito ma ho la netta impressione di non essere all’altezza”.  ingurgitavo ossigeno, e la profonda eccitazione aumentava i capogiri. Fu il Dott. Freud stavolta a distogliermi dalle mie sensazioni.

“Non importa se lei lo sia o meno, importa che lei trovi il coraggio di dire la sua… gentile collega”

Sentirmi dare del collega aumentava i battiti e certamente non aiutava a ridurre la mia sindrome da iperventilazione.

“Dicevo di non sentirmi all’altezza perché la mia impressione risulta sciocca a me medesimo. Mi sembra, cioè, che vi stiate affannosamente inseguendo quando, non solo avete visto la medesima immagine, ma siete giunti alle medesime conclusioni. Il Dott. Freud  le ha raggiunte attraverso sua madre, il dott. Jung attraverso la sua capacità materna e lei James, attraverso le gravide nuvole ma, in sintesi avete affermato la medesima cosa.” Respirai lentamente e strofinai le mani sulle mie gambe per verificare quanto stessi sudando

“Quindi?” chiese Jung

“Quindi cosa?” risposi

“Quindi quali conclusioni tira?” chiarì Freud

Hillman mi mise una mano sulla spalla e la scosse con una leggerezza femminea e io parlai

“Quindi cari colleghi non importa quale sia il percorso e l’orientamento con cui lo si affronta, sarà sempre e solo l’Intenzione a essere terapeutica e, se lo è, ci condurrà sempre alle medesime conclusioni, qualsiasi sia il tragitto, che poi è sempre lo stesso… ossia quello che va da Platone fino a Nietzsche per giungere a voi tre” feci una breve pausa per verificare le loro reazioni poi proseguii “… voglio intendere che se avessimo la possibilità di vivere millenni e nel vuoto assoluto, il nostro percorso individuativo ci condurrebbe per gradi attraverso le filosofie che ci hanno preceduto. Per amor di Sofia mi troverei a pensare prima come Talete, poi come Anassimene, Anassimandro, Eraclito Socrate ecc. fino a giungere ad oggi a voi perché questa non è la storia della filosofia e delle teorie di più persone ma della psiche e del suo processo evolutivo, sono i filosofi che hanno esplorato la porzione che gli è stata data dal destino e da Crono. A me siete stati dati Voi e io non vi ho letto ma ho solo ritrovato nei vostri scritti ciò a cui avevo già pensato in merito a me medesimo, che sono, in fondo in fondo, il mio primo ed ultimo esperimento. Quindi non vi affannate perché l’affanno è solo in cerca del successo e non di ciò che succede. Ogni individuo già contiene ciò che voi andate affermando solo che voi avete avuto l’opportunità  e l’Ozio per osservarlo”.

La birra era finita e Hillman stropicciava le dita della mano destra tra loro cercando di comprimere un certo compiacimento. Mi accorsi che anche Freud e Jung erano in un ascolto che mi imbarazzava e quindi ripresi fiato ma senza espirare e continuai…

“Dunque Fuori, dentro, sopra. Eccovi riassunti gentili maestri. Schlomo lei ci vuole far lavorare sulla mamma concreta, Gustav su quella intrapsichica come funzione psicologica, mentre James sull’immagine. Mi sembra di capire che per lei Dott. Hillman i veri pazienti sono le immagini, lei si prende cura delle immagini. Mentre la cura dei pazienti è semplicemente un effetto collaterale di questa cura per le immagini”.

Hillman annui ma quasi come se non fosse giunto a quelle che, certamente, non potevano che essere le sue stesse conclusioni.

Presi l’ultima boccata d’aria ma, avendo dimenticato di espirare ormai da un certo tempo, mi fu quasi fatale e dopo aver aggiunto “… I pazienti al dunque si curano da soli se in noi c’è l’intenzione che lo facciano e noi ci appropriamo dei loro elisir, dovremmo essere noi a pagare loro” solo allora persi i sensi.

Il Dott. Hillman per primo si sporse e mi iniziò a picchiettare le guance con leggeri ossuti buffetti mentre Freud mi sentiva il polso e il Dott. Jung cercava di attirare l’attenzione di due gendarmi.

Chiusi gli occhi e sembrò che le mani ossute del Dott. Hillman iniziassero a muoversi a scimmiottare carezze piuttosto che a schiaffeggiarmi. Cercai di riaprire gli occhi per non perdermi quella epica scena e vidi, d’un tratto,  mia moglie con le sue ossute mani protesa su di me col pancione al settimo mese che premeva sul mio fianco. Mi carezzava la fronte mentre i miei figli gridavano entusiasti.

“Papà!”

dai piedi del letto.

Li guardai senza capire bene cosa fosse successo e mentre mia figlia andava a chiamare i medici sentii flebile la voce di mia moglie

“Noi stiamo tutti bene mentre tu non avevi la cintura e hai sbattuto la testa. Niente di grave solo la macchina è un po’ rovinata”

Il mio sguardo interrogativo la spinse ad aggiungere

“ma ti pare che tu debba guardare le nuvole mentre guidi?”

La osservai, lei hillmanianamente protesa, poi guardai mia figlia junghianamente in protesta e infine mio figlio che cercava freudianamente un colpevole. Poi sentii un piccolo calcio provenire dal pancione premere sul mio fianco, e mi venne da ridere.

“Perché ridi?“ mi chiese lei

“Si  hai ragione, devo smetterla di stare con la testa tra le nuvole”

Sorrisi di nuovo.

Dott. Luca Urbano Blasetti

Psicologo Psicoterapeuta

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luca.urbanoblasetti@gmail.com

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